Quella mattina, come sempre, stavo
andando a scuola. Ma la solita strada, le solite case, i soliti negozi, era
come se non li ritrovassi più. Uomini in chitone o in clamide e donne in lunghi
pepli mi camminavano accanto.
Scossi il capo, incredula. Che
fossero solo prodotti della mia mente, già abbastanza esasperata dal pensiero
dell'imminente verifica di storia greca? Ripensai, non senza una punta di
terrore, alle dure parole della prof: stavolta, ragazzi miei, nessuna pietà,
tuonava dalla cattedra come novella Medusa, scuotendo minacciosa le luride
serpi cotonate. Risi nervosamente, rammentandomi della risicata sufficienza che
anche quella volta mi sarebbe spettata, e urtai contro un ragazzo in himàtion,
con cui mi scusai distrattamente prima che, sorridendo, si offrisse di
accompagnarmi per la via che portava al mercato. Non lo vidi più, tanto gremita
era l'agorà quel mattino; solo due uomini, l'uno neppure ventenne e l'altro
pressappoco sui quarantacinque, conversavano animatamente, lontani dal rumoroso
capannello di gente che andava formandosi al centro dello spiazzo. Riconobbi in
loro Zenone e Parmenide e, in silenzio, mi appostai dietro una bancarella pur
di origliare le bizzarre teorie che il giovane, diventato di fiamma, raccontava
al suo maestro a metà tra il contrariato e il divertito.
“Perciò,” ricominciò quello, “o
Parmenide, non mi credi? Neanche tu, allora, riesci a vedere oltre le
apparenze, a riconoscere”, concluse amaramente, “come anche una misera tartaruga
possa battere il divino Achille?”
“Bada bene, o Zenone, a riflettere
prima di parlare. O forse vorresti tediare anche la povera ragazza lì dietro
con le tue sciocchezze?” chiese l'amico, sorridendo con vaga aria di
rimprovero, mentre uscivo dal mio improvvisato nascondiglio, rossa di vergogna.
“Mi dispiace”, farfugliai,
cercando di sfoggiare il miglior greco che avessi, “ma non ho potuto fare a
meno di ascoltarvi... e tu, Zenone, ti dimostrerò che sbagli”, risi, mentre il
giovane, punto nell'orgoglio, blaterava in risposta qualcosa sul mio strano
abbigliamento; ma neppure ebbi il tempo di presentarmi a dovere, che già un
urlo straziante si levò dalla folla davanti a noi.
“E' Temistocle”, sospirò
rassegnato il filosofo, vedendo le nostre facce sorprese. “E' stato esiliato
ieri, e ora si ridicolizza ulteriormente. Una gran brutta faccenda, direi,
specialmente considerando gli imbrogli...”
“Imbrogli?” lo interruppe Zenone,
curioso.
“Dicevo. Zenone, davvero non hai
udito nulla dell'accaduto? Sono stati i sostenitori di Cimone a procurare la
sua rovina”, spiegò, “chissà però con quali mezzi... Si vocifera in giro che
abbiano addirittura truccato le votazioni.”
“Ma è indegno!” si adirò il
giovane. “Capisci?” si rivolse a me e io annuii, consapevole del fatto che la
natura umana, malgrado i secoli che ci separavano, ancora non accennava a
cambiare.
“In ogni caso, è stato un atto di
estrema viltà da parte degli Ateniesi”, aggiunse Parmenide, increspando le
labbra in una smorfia amara. “Dopo essersi tanto speso contro le schiere di
Serse, certo non meritava un trattamento simile. Ma che possiamo farci, o
Zenone?” cercò invano di richiamare l'attenzione del ragazzo, il cui sguardo mesto si rivolgeva ancora una
volta alla penosa figura del condottiero, ormai come spogliata di ogni gloria.
Decidemmo così di comune accordo,
pur di non assistere un attimo di più all'agonia di Temistocle, di fare una
passeggiata per le vie principali, ma anche lì Zenone non smise un attimo di
tormentarmi coi suoi interrogativi.
“Allora,” mi chiedeva, “come confuteresti la mia tesi?” mentre io, con
un coccio raccolto da terra e uno stilo, gli spiegavo alla meglio ciò che avevo
imparato a scuola. Più volte si arrabbiò con me, ma poi sembrò capire.
Camminammo ancora per molto,
finché non mi resi conto di essermeli lasciati alle spalle; né più vi era
traccia del gentile giovane in himàtion che mi aveva accompagnata. In
compenso, forse, avrei avuto molto più di una banale lezione di storia da
raccontare...